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Il passaggio generazionale

Condividiamo tutti che il passaggio generazionale è uno dei momenti più delicati della vita di Impresa. Vi proponiamo alcune interessanti riflessioni tratte dall’articolo citato a riferimento che riporta le considerazioni del professor Papa, docente di Economia dell’Università di Macerata e direttore dell’Institute of Applied Economic Research, in merito alle problematiche relative al passaggio generazionale, cioè tra padre e figli, per le aziende a conduzione familiare, problematiche inerenti al fronte strategico (la condivisione degli obiettivi), relazionale (il confronto sul business), operativo (il confronto sul “mestiere”).

(Non viene preso in considerazione quel 6% di casi in cui lo scettro dell’azienda non viene trasmesso a un figlio ma ad altro soggetto esterno alla famiglia, ad esempio a un dipendente).

Nel nostro paese ci sono quattro milioni di imprese, di cui 8 su 10 sono a conduzione familiare.

Degli oltre quattro milioni di imprese di cui sopra:

  • il 98% sono PMI
  • l’80% è di tipo familiare
  • 53% è la quota media del patrimonio personale immesso in azienda
  • 85% è la quota di aziende familiari fallite nei primi 7 anni di vita
  • il 30% circa di quelle sopravvissute (4,5% circa di quelle iniziali) riesce ad arrivare alla seconda generazione; il 3-4% arriva alla quarta (lo 0,03% circa delle imprese iniziali), il 15% sopravvissute al passaggio fra seconda e terza generazione (0,7% circa delle imprese iniziali).

Secondo il professor Papa, le cause principali che portano al fallimento del trasferimento generazionale sono:

  • un complesso di superiorità da parte del padre, che ritenendosi insuperabile, non reputa i figli all’altezza del compito ed evita di affrontare il passaggio in questione
  • una scarsa convinzione, sempre da parte del padre, che in chi deve subentrargli non ci sia sufficiente motivazione al lavoro o senso di responsabilità, quando non ritenga addirittura che essi non sia “fisiologicamente portato al mestiere”
  • l’esistenza di “più galli nel pollaio”, ossia una “grossa e latente tensione a livello familiare (lotte intestine)” quando coloro che dovrebbero subentrare siano due o più persone
  • la perplessità sul fatto che “ne valga la pena” di trasmettere l’azienda ai figli, quando ad esempio questa sia già compromessa sul fronte debitorio e/o sussista il timore che il passaggio complichi ulteriormente la situazione economica.

È evidente che chi “lascia” (il genitore, nel 90% dei casi esaminati dallo studio di cui all’articolo citato a margine) si pone poi anche la domanda se il figlio sia “in grado di prendersi cura dell’azienda” e se sia la “persona giusta”: queste domande rischiano di portare l’imprenditore a prendere in considerazione l’ipotesi che non sia meglio cedere l’azienda per tempo.

Questo panorama di cause impone che, a fronte di un passaggio generazionale dell’azienda, avvenga un confronto costruttivo fra la generazione che esce e quella che subentra. Ma questo confronto diventa assai complicato quando l’azienda in questione “rappresenti un luogo di disagio sociale, anche tra gli stessi membri della famiglia”.

Va da sé che il superamento delle problematiche citate è risolvibile solo attraverso un corretto rapporto fra padre e figlio, tale da evitare ad esempio la mancanza di dialogo fra i due, o aspettative troppo elevate da parte del genitore, o problematiche inerenti il carattere e la psicologia delle persone. Smontare queste problematiche aiuta sicuramente a rispondere alla domanda se il figlio subentrante sia in grado di prendersi cura dell’azienda.

La problematica relativa al dubbio che il figlio sia la persona “giusta” spesse volte è determinata:

  • o da una troppo elevata considerazione che il genitore ha delle proprie personali capacità
  • o dalla “pretesa” che i figli facciano dell’azienda “il motivo della propria esistenza”
  • o dalla scarsa determinazione reale del padre di “cedere lo scettro del potere”
  • o dalla effettiva volontà di voler tramandare l’azienda da padre a figlio. Tipico esempio, il caso in cui l’azienda abbia serie problematiche economiche o patrimoniali; in tali casi è evidente il conflitto che attanaglia il padre, diviso sul destino della “sua azienda”, cui ha dedicato tanti sacrifici, e la salvaguardia del figlio.

A complicare le cose, c’è poi il fatto che le nuove generazioni hanno spesso idee differenti da quelle dei genitori. Inoltre, da un lato c’è il timore del genitore (che si prepara a lasciare) che il figlio non sia in grado di gestire il business (il controllo economico finanziario dell’azienda, le condizioni che assicurano solidità economica, l’affidabilità e la possibilità di reinvestire in innovazione e sviluppo). Dall’altro, il figlio che subentra al padre può vivere l’esperienza con disagio perché si sente “sotto osservazione”, sia da parte del padre, che dei dipendenti dell’azienda e può temere di non essere all’altezza.

Gli aspetti qui sopra citati rischiano di creare delle tensioni assai rilevanti a livello familiare e -non ultimo- la demotivazione o persino l’abbandono della prospettiva da parte di chi deve subentrare.

Ancora, la generazione che lascia deve tenere presente la necessità di “insegnare” a quella subentrante, tenendo presente che “insegnare un mestiere” è assai diverso dal “fare” e che l’insegnare presuppone un buon rapporto fra docente ed allievo.

Da tutti questi aspetti risulta evidente che il passaggio generazionale non richiede solo la trasmissione di competenze tecniche e gestionali, ma anche:

  • tanta “umanità e comunicazione costruttiva”: il rispetto fra le culture e le conoscenze delle due generazioni implicate nel passaggio
  • tanto spirito di sacrificio: la generazione entrante si deve dimostrare “proattiva nei confronti del lavoro” e allenarsi in vista del nuovo compito con tanta passione e costanza;

Solo in tal modo si può evitare di scompensare gli equilibri che sono alla base di ogni impresa.

Il modo migliore per affrontare il problema sarebbe – evidentemente ove possibile – l’affiancamento fin da piccolo del subentrante (il figlio) all’imprenditore (nel nostro caso, al genitore).

Il passaggio di una azienda da padre a figlio non può essere considerato un “momento” di vita dell’impresa, ma un “processo” (una attività in itinere) e una vera e propria “sfida”.

Quali i suggerimenti forniti dal prof. Papa per il processo di passaggio generazionale dell’impresa?

Eccole in sintesi:

  • mantenere un confronto costruttivo fra i componenti delle due generazioni (uscente ed entrante)
  • in fase di ingresso, educare il figlio alla vita di impresa, lasciandogli il tempo necessario per acquisire le abilità imprenditoriali necessarie.

Per il prof. Papa, i requisiti indispensabili che deve possedere una impresa familiare di piccole e medie dimensioni per pianificare e gestire il proprio business, nonché per superare il passaggio generazionale alla sua guida, sono:

  • un numero basso di soci (2-3)
  • il ricambio deve coinvolge principalmente i componenti il nucleo familiare
  • occorre porsi la prospettiva di avere stabilità in un orizzonte temporale di almeno 30 anni
  • l’investire una quota rilevante (intorno al 53%) del proprio patrimonio nell’azienda
  • la rilevanza di ostacoli economico-emotivi all’uscita dalla proprietà dell’azienda
  • l’85% dei familiari proprietari deve ricoprire almeno due o tre ruoli aziendali rilevanti ed avere la capacità di mediare tra gli interessi della propria famiglia e quelli dell’azienda (soddisfare le attese dei componenti della famiglia, remunerare chi investe il capitale, remunerare i dipendenti, rispondere alle attese del mercato e dei consumatori attraverso i propri prodotti/servizi). Si tratta di rispondere alle attese del mercato attraverso l’evoluzione aziendale, “di far sì che lo sviluppo funzionale dell’impresa finisca per coincidere con l’evoluzione stessa dell’interpretazione del mestiere della famiglia di riferimento”. Ma spesso “conta pure la creatività imprenditoriale nel sapere adattare i modelli di governance alle realtà che si vengono a creare”, “basare la governance generazionale sull’alternanza” (si cita l’esempio di passare ogni cinque anni il timone dell’azienda ad una altra generazione).

Per il successo del passaggio di proprietà, le generazioni uscente ed entrante devono essere d’accordo sui seguenti aspetti:

  • operatività: disponibilità (di chi lascia) ad insegnare “il mestiere” e ad accogliere (da parte di chi subentra) gli insegnamenti
  • strategia: concordare (fra chi lascia e chi entra) dove si vuole portare l’azienda, con un piano condiviso relativo agli sviluppi della stessa
  • organizzazione: stabilire “chi fa-che cosa
  • fronte eco-fin: aver chiaro quali strumenti (semplici ma efficaci) economico finanziari attivare per governare i fattori chiave/ le sorti dell’azienda (senza ricorrere a troppe consulenze)
  • fronte relazionale: equilibri all’interno della famiglia per la gestione dell’impresa.

Dunque: trasparenza, rispetto reciproco, controllo congiunto dell’andamento del business; capacità di controllare.

Buona lettura… e buon Business Coaching!

 

Da: Mark Up del 15 maggio 2019, “Famiglia Italia. Imprenditori alla sfida generazionale”, estratto da pag.117-118-119-120-121-123-125-127-128, a firma Adriano Palazzolo.

Effetto Pigmalione e la fiducia in Azienda

Nella mitologia greca, la storia di Pigmalione è stata narrata da Ovidio per spiegare come le aspettative possano influenzare un determinato risultato.
Lo scultore greco, dopo aver realizzato una statua rappresentante il suo ideale di femminilità, viene premiato dalla dea Venere per la sua dedizione all’amore, questa infatti esaudisce il suo desiderio e dà vita alla statua, trasformandola in Galatea.

In seguito il mito di Pigmalione è stato ripreso in diverse opere, la più famosa è sicuramente la commedia di George Bernand Shaw, e perfino in psicologia.

Di fatto attraverso lo studio del mito di Pigmalione, il noto ricercatore Robert Rosenthal è arrivato a confermare la teoria delle “profezie che si autoavverano”.

Un approfondito studio sui rapporti interrazziali e sul ruolo delle aspettative in questi contesti è stato fatto da Robert Merton nel 1948, prima ancora che da Rosenthal.
Merton aveva descritto la profezia che si autoavvera come “una supposizione che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”.

Quindi un’opinione anche se non veritiera, può portare una persona a comportarsi come predetto.

Lo studio di Rosenthal

Rosenthal e la sua équipe realizzarono un esperimento di psicologia sociale all’interno di un istituto scolastico americano. Innanzitutto fecero sottoporre tutti gli alunni di una classe delle elementari a un test di intelligenza, in seguito selezionarono un gruppo ristretto di bambini e li presentarono agli insegnanti come i migliori alunni della classe, ignorando totalmente i risultati del test. Annunciarono agli insegnanti che questo gruppo di bambini era molto promettente e che quindi avrebbero potuto aspettarsi da loro grandi risultati.

Dopo un anno, l’équipe ritornò nell’istituto per verificare i risultati dell’esperimento. Gli alunni che erano stati segnalati agli insegnanti come i migliori della classe avevano ottenuto grandi risultati dal punto di vista scolastico, incrementando notevolmente il loro rendimento scolastico e le loro capacità.

Il solo esprimere fiducia nelle capacità di quel gruppo ristretto di bambini aveva stimolato il loro interesse e il loro impegno verso lo studio.

Un giudizio negativo di un insegnante verso un alunno può influenzare la percezione che lo stesso alunno ha di sè stesso, mettendo in atto un circolo vizioso per cui il bambino una volta interiorizzato il giudizio si comporterà di conseguenza, rendendo veritiera l’opinione iniziale dell’insegnante.

Il discorso può spostarsi agli stereotipi, i quali sono fortemente resistenti al cambiamento. Nella nostra mente si attiva un meccanismo mentale per cui si cerca di individuare nel mondo delle nostre osservazioni solo quelle che ci permettono di confermare l’opinione iniziale che avevamo. È inoltre in forte correlazione con la cosiddetta “legge di Murphy” secondo la quale se ci aspettiamo che qualcosa di negativo accada questo accadrà sicuramente, proprio perchè finiremo per comportarci in modo da rendere veritiera la nostra supposizione.

Effetto Pigmalione in azienda

Questo effetto detto “effetto Pigmalione” o anche “effetto Rosenthal” si manifesta non solo nell’ambiente scolastico ma anche in altri contesti, in particolare tra capi e dipendenti in azienda. Le aspettative del capo nei confronti dei subordinati possono influenzare le relazioni interpersonali e determinare miglioramenti/peggioramenti delle performance.

Per riuscire a trasformare il circolo vizioso della profezia che si autoavvera in circolo virtuoso, ci sono alcuni pratici consigli da seguire:

  • aspettarsi sempre il meglio dai propri collaboratori, poichè aspettative basse innescano la spirale della bassa autostima (effetto Golem)
  • ricorrere a gratifiche e apprezzamenti in caso di risultati positivi
  • prendersi la responsabilità delle performance del proprio team
  • porre obiettivi sfidanti ma non irraggiungibili, cercando di ottenere dai propri collaboratori sempre un po’ di più.

Questo permette non solo di ottenere maggiori performance dai propri collaboratori, ma anche di divenire leader amati e apprezzati, che stimolano le persone a credere in se stesse e a migliorarsi.

Vi sono 5 problematiche da evitare quando si gestisce un gruppo di persone:

  • evitare di creare un ambiente in cui vi è mancanza di fiducia
  • non fare in modo che vi sia paura del conflitto e del confronto
  • evitare che le persone non si prendano le proprie responsabilità
  • evitare la mancanza di impegno
  • evitare di trascurare i risultati

Articolo a cura di Riccardo Nava, Network Manager di ProntoPro, che volentieri pubblichiamo su Business Athletics.